
Il termine Abusi di Mercato è riferito a tutte quelle ipotesi in cui i risparmiatori-investitori subiscono, direttamente o indirettamente, le conseguenze della condotta di chi abbia illecitamente usato, a vantaggio proprio o di altri, informazioni non accessibili al pubblico, ovvero divulgato informazioni false/ingannevoli o, ancora, manipolato il meccanismo di determinazione del prezzo degli strumenti finanziari.
La disciplina è contenuta nel d.lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998, c.d. Testo Unico Finanziario (T.U.F.), Titolo I bis, Parte V, e mira alla repressione delle cc.dd. asimmetrie informative del mercato finanziario, da cui originano i cc.dd. fenomeni di Market Abuse.
Le condotte di uso illecito di informazioni non accessibili al pubblico o di divulgazione di informazioni false o ingannevoli, oggi costituenti reato ai sensi degli artt. 184 e 185. T.U.F., vengono rispettivamente rubricate come abusodi informazioni privilegiate (c.d. insider trading) e manipolazione del mercato (c.d. market manipulation).
Ai reati si affiancano due (ulteriori) fattispecie, ma di natura amministrativa, recanti il medesimo nomen iuris, disciplinate dagli artt. 187 bis e ter dello stesso T.U.F..
L’impianto sanzionatorio vigente in Italia è draconiano.
L’intento è la responsabilizzazione non soltanto degli autori materiali delle condotte, persone fisiche, ma anche delle società, attraverso l’introduzione della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche – art. 25 sexies d. lgs. 231/2001 – e della responsabilità di cui all’art. 187 quinquies del T.U.F., rubricato Responsabilità dell’ente.
La seconda delle due responsabilità sopra indicate prevede, dopo le modifiche introdotte dal d. lgs. 107/18 – Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014 – che l’ente sia punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila fino ad oltre quindici milioni di euro,(per le ipotesi di reato aggravato dal conseguimento di un profitto di rilevante entità), ovvero fino al quindici per cento del fatturato, nel caso in cui la violazione sia commessa nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti c.d. apicali, anche di fatto, o da c.d. soggetti sottoposti, (artt. 14 e 15 del Reg. UE 596/2014, c.d. MAR – Market Abuse Regulation).
È importante evidenziare che l’art. 187 quinquies T.U.F. disciplina una responsabilità amministrativa dell’ente certamente altra e diversa rispetto a quella di cui al d.lgs. n. 231/2001.
La prima deriva dalla commissione degli illeciti amministrativi di abuso di mercato.
La seconda trae origine dalle fattispecie di reato.
In realtà i due sistemi risultano in larga parte sovrapponibili: invero, oltre alla comunanza testuale tra il comma 1 dell’art. 187 quinquies T.U.F. e l’art. 25 del decreto 231, il Testo Unico Finanziario richiama espressamente e “in quanto compatibili” gli artt. 6, 7, 8 e 12 del d. lgs. 231/01 determinando, in sintesi, una piena identità dei criteri di imputazione soggettiva ed oggettiva delle due responsabilità.
Il risultato, quindi, è che per uno stesso fatto di abuso di mercato, l’ente può essere chiamato a rispondere due volte: dinanzi l’Autorità Giudiziaria in sede penale ex art. 25 sexies D.lgs. 231/2001, nonché di fronte alla Consob in forza dell’art. 187 quinquies T.U.F. (1).
Ciò, oltre alle autonome responsabilità personali degli autori del fatto di reato.
È chiaro, pertanto, che ci si trova di fronte ad un sistema sanzionatorio molto severo, c.d. a doppio binario sanzionatorio cumulativo, la cui adozione pare irragionevole vista la natura (formalmente) amministrativa della responsabilità degli enti.
Eppure è proprio sulla natura sostanzialmente penale della responsabilità di cui al d.lgs. 231/2001 che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, (Cass. civ., SS.UU., 30 settembre 2009, n. 20936), hanno escluso l’illegittimità del cumulo, affermando che la persona giuridica non risponde due volte del medesimo illecito amministrativo, posto che la sua responsabilità, per come è configurata nel D. Lgs. n. 231/2001, “ricalca […] nella sostanza, mutatis mutandis, la falsariga della responsabilità penale”.
Più di recente, la Suprema Corte ha statuito che il fatto oggettivo per il quale l’ente può essere chiamato a rispondere deve identificarsi con la stessa condotta ascritta all’autore dell’illecito presupposto, in tutte le sue componenti costitutive.
Pertanto, la differenza soggettiva tra l’autore del reato (persona fisica) ed il responsabile dell’illecito amministrativo (persona giuridica) comporta “la diversità del fatto materiale ricondotto alla sfera di responsabilità del suddetto ente nei due casi, con la conseguenza che dall’esito degli stessi non può derivare alcuna violazione del principio (del ne bis in idem)in danno dell’ente medesimo” (2).
Sin qui l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in Italia.
Nonostante la chiara premessa, non ci si può esimere dall’evidenziare come i richiamati orientamenti siano in contrasto con l’evoluzione della giurisprudenza delle Corti sovranazionali. Probabilmente, in un’ottica di armonizzazione “europea” sarebbe il caso di riflettere più a fondo sui termini della recente riforma di cui al d. lgs. 107/2018.
Ad oggi il compito di presidiare il divieto di bis in idem (cioè di essere giudicato due volte per lo stesso fatto), è affidato al meccanismo di cui all’art. 187 terdecies T.U.F., così come modificato dalla riforma appena citata.
Ma come difendere la società dal rischio che venga coinvolta in un fatto di market abuse?
In attesa degli auspicabili prossimi sviluppi normativi e giurisprudenziali, vale la pena evidenziare che dal coordinamento delle norme di cui alla legge 231 e dell’art. 187 quinquies T.U.F., il Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo assume una importanza fondamentale.
È infatti la pietra di volta per la declinazione della responsabilità dell’ente, sia essa derivante da reato ovvero da illecito amministrativo in tema di market abuse.
L’assunto è confermato anche dalla giurisprudenza, che mutua volutamente gli schemi e la terminologia in materia di responsabilità da reato, affermando che: “In tema di sanzioni amministrative a carico degli enti per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, per andare esente dalla responsabilità di cui all’art. 187 quinquies del d.lgs. n. 58 del 1998 l’ente è tenuto a provare di avere adottato adeguati modelli organizzativi e gestionali, idonei a prevenire illeciti della specie di quello verificatosi, e che gli stessi siano stati fraudolentemente elusi da parte degli autori materiali del cd. “illecito presupposto” (Cass. civ. Sez. II Sent., 06/12/2018, n. 31635).
Infine, per completezza, è d’obbligo segnalare che la persona giuridica è destinataria anche delle sanzioni amministrative, ex art. 187 ter.1 T.U.F., ove agisca in violazione degli obblighi di prevenzione, individuazione e segnalazione degli abusi di mercato previsti dal MAR (market abuse regulation). In questo caso, si applicherà una sanzione amministrativa pecuniaria da cinquemila a due milioni cinquecentomila euro, ovvero al due per cento del fatturato, in caso di importo superiore al massimo edittale e fatturato determinabile.
In conclusione, alla luce della complessa disciplina sin qui brevemente accennata e dei correlati rischi per l’Ente, emerge con chiarezza la fondamentale importanza di dotare la società di un valido sistema di governance e controllo, ovverosia di un Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo conforme al d.lgs 231/2001.
Articolo a cura della dott.ssa Elena Laudani
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Note
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In definitiva, allo stato attuale, per i reati di market abuse l’autorità Giudiziaria può applicare la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote, il che significa – tenuto conto del valore massimo che ciascuna quota può avere – una sanzione pecuniaria fino a 1.549.370,00 euro e la Consob, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 187 terdeciesU.F. può irrogare sanzioni amministrative per un importo fino a dieci volte superiore.
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civ. Sez. II Sent., 06/12/2018, n. 31635, nella specie, la Suprema Corte ha escluso ogni violazione del principio del “ne bis in idem” poiché la sentenza penale di assoluzione invocata, peraltro non ancora definitiva, non concerneva le stesse persone fisiche imputate degli illeciti per i quali era stata emessa la sanzione in esame e, comunque, la specifica statuizione che aveva riguardato l’ente “de quo” in un ulteriore giudizio, avendolo interessato quale responsabile civile, non aveva natura sanzionatoria e, perciò, non era idonea a costituire il presupposto per l’applicazione del menzionato principio.