Un osteopata è stato condannato per violenza sessuale per
palpeggiamenti in zone erogene eseguiti in assenza di previo consenso.
Con la sentenza n. 15219/20 la Corte di Cassazione – Sez. III Penale – ha confermato la sentenza con cui è stato ritenuto responsabile di violenza sessuale un osteopata che, durante l’esecuzione di tecniche finalizzate alla cura della cervicale della paziente, aveva palpeggiato la zona del seno e la zona pubica della donna, abusando dell’autorità derivante dal rapporto fiduciario medico-paziente. Le azioni sono state eseguite senza aver preventivamente avvertito e informato la paziente delle manipolazioni che stavano per esser eseguite e senza aver recepito il suo consenso espresso e libero.
Prima di entrare nel dettaglio di quanto accaduto tra l’osteopata e la paziente è bene inquadrare la cornice del reato di violenza sessuale.
Il reato è previsto in Italia dall’art. 609 bis c.p. e punisce con la pena della reclusione da sei a dodici anni chiunque mediante violenza o abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Alla medesima pena è sottoposto chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
- abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
- traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Il reato di violenza sessuale tutela il bene giuridico della libertà sessuale, da intendersi quale libertà di chi deve poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia e libertà, contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima, anche se attuata con l’inganno.
La libertà sessuale trova copertura costituzionale nei precetti di cui agli arti. 2, 3 e 13 Costituzione, il quale proclama l’inviolabilità della libertà personale.
L’interpretazione che ne deriva è che qualunque atto, anche solo potenzialmente pericoloso della libertà sessuale della vittima, è idoneo ad integrare l’elemento oggettivo del reato in esame, a prescindere dallo scopo avuto di mira dall’agente.
Una precisazione va posta circa l’elemento psicologico del soggetto agente.
La giurisprudenza di legittimità è uniforme nel ritenere che a nulla rileva la finalità libidinosa o meno del soggetto agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere e della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito (così, tra le tante: Cass. Pen., Sez. III, n. 3648/17).
Cosa si debba intendere “carattere oggettivamente sessuale dell’atto” la Cassazione lo precisa affermando di dovervi ricomprendere non soltanto ogni forma di congiunzione carnale, ma altresì qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale.
Torniamo al caso del processo celebrato contro l’osteopata.
La difesa dell’imputato è stata basata sulla «correttezza tecnica delle manipolazioni adottate» sulla persona di Francesca (nome di fantasia) e sull’avvenuta preventiva informazione della paziente delle pratiche mediche che sarebbero state effettuate, come da routine.
Nel caso in esame, l’osteopata si è difeso asserendo l’assenza del carattere sessuale della condotta tenuta, trattandosi di atto terapeutico, che, per definizione, non può avere finalità di carattere sessuale. In secondo luogo, era stato dimostrato che dette manovre erano state correttamente praticate secondo quanto era risultato dalla documentazione scientifica prodotta al processo.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non ha accolto la tesi difensiva.
I giudici della Cassazione infatti hanno fatto proprie le considerazioni della Corte d’Appello, allorché era stato precisato come le tecniche di massaggio indicate dall’imputato, (denominate “manico di secchio” e “braccio di pompa”), in ogni caso non spiegherebbero né i contatti con i capezzoli della paziente e nemmeno il palpeggiamento della zona pubica.
In ogni caso, anche a voler ritenere corrette le manovre eseguite, sia dal punto di vista di esecuzione tecnica che dal punto di vista terapeutico, il processo celebrato in I e II grado aveva dimostrato un elemento dirimente ai fini del reato: la persona offesa non era stata preventivamente informata che i massaggi (o le manovre) avrebbero interessa il seno ed il pube. Conseguentemente, la paziente non aveva espresso il proprio consenso a subire trattamenti invasivi della propria sfera sessuale.
La Cassazione ha quindi richiamato il principio secondo cui “il medico, nell’esercizio di attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito il suo consenso, esplicito e informato, o se sussistono i presupposti dello stato di necessità e deve, inoltre, immediatamente fermarsi in caso di dissenso del predetto, (Cass. Pen. Sez. 3, n. 18864 del 22/02/2019 – dep. 06/05/2019, P, Rv. 275743). Ciò vale, a fortiori, nell’ambito dell’attività di osteopata, terapia medica alternativa e dunque ordinariamente non conosciuta, ove il paziente deve essere previamente informato nel caso in cui il trattamento praticato sia invasivo della sfera sessuale al fine di prestarvi consenso, mancando il quale e’ ravvisabile il delitto di violenza sessuale“.
La Corte di Cassazione ha così dichiarato il ricorso inammissibile e confermato la sentenza di condanna alla pena di giustizia.
contributo redatto dall’Avv. Elisa Tempesta del Foro di Roma