
Responsabilità del Consiglio di amministrazione
La Cassazione stringe le maglie sui consiglieri del Cda privi di deleghe.
Anche il consigliere rischia profili di responsabilità per i reati tributari ed il sequestro preventivo dei beni
L’estensione dei reati tributari nell’elenco dei reati presupposto per la responsabilità degli enti ex d.lgs.231/2001 ha moltiplicato (triplicato) la risposta sanzionatoria dello Stato in caso di illecito tributario, (sanzione tributaria per la società, reato per l’amministratore, illecito 231 per la società).
La Cassazione è di recente intervenuta in tema di reati tributari con due severe interpretazioni della disciplina. Tra i principi di diritto introdotti, merita rilievo l’importante distinzione tra le società governate da Cda con o senza deleghe. Il dato è sensibile e influenza direttamente la catena di responsabilità di chiunque sieda all’interno di un consiglio di amministrazione.
1. Secondo una recente pronuncia, (Cass. Sez. 3 Pen. Sent. 28.03.2022 n. 11087087), qualora un determinato atto di gestione non rientri fra le deleghe espressamente conferite, tutti i componenti del consiglio rispondono degli illeciti, gravati da responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti in essere dal Cda. Unica eccezione: l’eventualità in cui un consigliere dissenziente esprima a verbale la propria opinione in contrasto.
Soltanto nel caso di deleghe espresse ad uno o più consiglieri, la responsabilità rimarrà confinata nella sfera giuridica di questi ultimi.
La Corte ha ancorato la decisione alla interpretazione dell’art. 2392 c.c., secondo cui gli amministratori all’interno delle S.p.A. assumono una posizione di garanzia dalla quale deriva una responsabilità solidale verso la società per i danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge o dallo statuto. Unica eccezione sono i casi di attribuzioni proprie, attribuite ad un comitato esecutivo, ovvero ascritte in concreto ad uno o più soggetti, (art. 2381, comma 2, c.c.).
Nel caso di specie, all’interno del Cda di un Consorzio, a nessuno dei consiglieri erano state attribuite deleghe. La S.C. ha prima ribadito l’alleggerimento degli oneri e delle responsabilità dei consiglieri privi di deleghe, (derivante dalla riforma del 2003), i quali non hanno più un generale obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, sostituito dall’onere di agire informato, di assumere informazioni. Fatta questa premessa, la Corte ha specificato come questo regime operi solo in presenza di materie delegate, o al comitato esecutivo, oppure ad uno o più consiglieri.
In assenza di deleghe ad alcuno dei componenti del consiglio di amministrazione, (in questo caso, agli adempimenti fiscal-tributari), si deve ritenere che grava su tutti i consiglieri una responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti essere dal consiglio di amministrazione, da riferirsi solidalmente a ciascuno di essi.
Ma la Corte è andata oltre.
Chiamata a decidere sulla legittimità di un sequestro preventivo disposto sulla “prima casa” del componente del Cda, ha affermato come in tema di reati tributari non operano i limiti alla espropriazione immobiliare previsti nei confronti dell’Erario (Agente per la riscossione) per i debiti tributari, (D.P.R. n. 602 del 29.09.1973, art 76, co 1 let. a); art. 52, co.1, let. g) D.L. 69 del 21.06.2013). Nessun limite, dunque, all’adozione della confisca penale, diretta o per equivalente, né al sequestro preventivo ad essa finalizzato, (Cass. Pen. Sez. 3, n. 8995 del 07.11.2019, Rv. 278275-01; conf.: Cass. Pen. Sez. 3, n. 30342 del 16.06.2021, Rossi, Rv. 282022 – 01; Cass. Pen. Sez. 3, n. 5608 del 20.10.2020, Telesca, non massimata).
Infatti, l’oggetto della confisca è il profitto del reato e non il debito verso il fisco. I due concetti sono distinti.
Il profitto di delitti consistenti nell’evasione dell’imposta, (per omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o omesso versamento), che può essere oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende né le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione, ne’ gli interessi maturati in favore dello Stato, (Cass. Pen. Sez. 3, n. 40358 del 05.07.2016, Rv. 268329), mentre il debito verso il fisco è sempre comprensivo dell’originario debito tributario, degli interessi e delle sanzioni, (Cass. Pen. Sez. 3, n. 7359 del 04.02.2014, rv. 261500).
2. Di seguito riportiamo una seconda recente sentenza, intervenuta in tema di reati tributari, (Cass. Sez. 3 Pen. sent. 28.03.2022, n. 11086).
Questa volta destinatario del provvedimento di sequestro preventivo è stato l’amministratore di fatto di una società andata in amministrazione straordinaria.
In breve.
Il PM aveva avanzato richiesto di sequestro preventivo nei confronti di beni dell’amministratore (di fatto) della società.
Nel frattempo, nei confronti della società OMISSIS s.r.l. era stata aperta procedura di amministrazione straordinaria. Dopo la dichiarazione di insolvenza, nelle casse della società la gestione commissariale aveva trovato circa 400.000 euro, provente dell’acconto sul prezzo di acquisto versato dal promissario acquirente di una parte dei beni aziendali. Il commissario della procedura, prima dell’inizio della stessa ed al di fuori di quel primo acconto sul prezzo di vendita, aveva trovato saldi sui conti correnti negativi o risibili. Da questo presupposto si dediceva che quanto rinvenuto nelle casse non era correlato o collegabile al profitto del delitto tributario omissivo oggetto di contestazione. Erano somme di denaro sorte dopo la commissione del reato. Conseguentemente, il Tribunale del riesame ha ritenuto che il profitto del reato tributario non fosse rinvenibile nelle casse della società e che, pertanto, fosse legittimo il sequestro per equivalente nei confronti dell’autore del reato, cioè l’amministratore della società.
Come noto, nei reati tributari il profitto non è costituito da un aumento patrimoniale, bensì da una mancata diminuzione, da un risparmio di spesa (le tasse). Da questo deriva che le somme entrate nelle casse della società dopo la commissione del reato non possono essere oggetto di una confisca diretta.
A questo principio si affianca una ulteriore considerazione, espressa per esteso dalla Corte. La disciplina dell’amministrazione straordinaria, a differenza delle procedure concorsuali “ordinarie”, (fallimento e concordato preventivo), è una “procedura di salvataggio”, ha cioè come obiettivo la tutela dei complessi produttivi, il mantenimento dei livelli occupazionali, il risanamento e la ristrutturazione dell’impresa.
Questo determina, secondo la Corte, che il sequestro preventivo in materia penal-tributaria in tema di amministrazione straordinaria debba essere diverso rispetto alle procedure concorsuali, non operando il principio di prevalenza del sequestro sui beni della gestione commissariale. Nel caso concreto, non operava quindi la prevalenza del sequestro sulla somma di 400.000 euro, rinvenuta nelle casse per atti successivi all’inizio della procedura.
Come ribadito, il denaro affluito nei conti dopo la commissione del reato, (addirittura su un conto aperto dalla gestione commissariale), non può costituire il profitto del reato tributario, rappresentato dal risparmio di imposta conseguente all’omesso versamento, (Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017, P.M. in proc. Barletta e altro, Rv. 272353; Sez.3, n. 6348 del 04/10/2018, dep. 2019, Torelli, Rv. 274859). È stato così ritenuto legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente sui beni dell’amministratore.
Sotto altro profilo, la Corte ha ritenuto legittima la misura ablativa (confisca) comminata in danno dei beni della persona fisica, anche per un reato (come quello tributario) commesso a beneficio di un soggetto giuridico diverso, cioè la società. L’impossibilità dell’esecuzione della confisca diretta nei confronti della persona giuridica, infatti, è ritenuto dunque il presupposto per l’operatività della confisca per equivalente nei confronti di chi non ha beneficiato del profitto, ma che ha commesso il reato il quale tale profitto ha generato.
Non è di poco momento ricordare come la ratio, che regge l’aspetto sanzionatorio della confisca di valore, sia finalisticamente orientata a disincentivare, in base al principio che “il crimine non paga”, gli illeciti progettati per locupletare profitti economici ingiusti. L’amministratore di una persona giuridica, (sia esso di diritto o, come nella specie, di fatto), sa o deve sapere che, commettendo un reato, in caso di condanna, deve affrontare una pluralità di sanzioni, collegate al suo comportamento illecito ed unitariamente incorporate nella norma incriminatrice, di cui una, (la confisca per equivalente), soltanto eventuale perché subordinata all’impraticabilità della confisca in forma specifica, che costituisce la prima scelta normativa. Ne deriva che, al sussistere di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità individuale, la valutazione, in ordine alla legittimità della sanzione reale adottata, non può essere inquadrata nell’ottica di una sorta di “de-responsabilizzazione” della persona fisica, soltanto perché il profitto del reato sarebbe andato a vantaggio dell’ente societario (non dell’autore del reato) e non sarebbe recuperabile in altro modo.
L’appartenenza (rapporto organico) dell’autore del reato all’ente, costituisce punto di partenza imprescindibile della complessiva vicenda criminosa.
È proprio il fatto di reato, nelle sue componenti oggettive e soggettive, nel quale si sostanzia la condotta realizzata nell’interesse o a vantaggio dell’ente, che produce il beneficio a favore della persona giuridica, facendole incamerare il profitto del reato (per taluni delitti tributari sotto forma di risparmio di spesa).
Non essendo quindi aggredibile in forma diretta il patrimonio dell’ente, per incapienza al momento della richiesta di sequestro, ne’ essendo aggredibile per equivalente l’ente, residua l’unica possibilità legittima e consentita dall’ordinamento, ossia la sequestrabilità per equivalente dei beni dell’amministratore, (sia esso di diritto o di fatto), rispetto al quale non può porsi un problema di proporzionalità, essendo infatti limitato ex lege il sacrificio patrimoniale al quantum del profitto conseguito dalla commissione dell’illecito, sub specie di mancato esborso patrimoniale necessario all’adempimento dell’obbligazione tributaria, (Cass. Sez. 3 Pen. sent. 28.03.2022, n. 11086).
In conclusione, nessuno scampo per l’amministratore, anche per delitti, come i reati tributari, realizzati a vantaggio dell’ente.